Premesso che quando si dice Pitagora ci si riferisce alla produzione della scuola pitagorica in generale, una perla è l’errore in fatto di corde musicali: fu affermato che l’altezza della nota emessa da una corda – in termini fisici, la frequenza – cresce in modo direttamente proporzionale alla tensione che la tiene tesa. Questo abbaglio è sopravvissuto per 2000 anni, in ossequio all’ipse dixit ma anche per lo scarso rilievo dato all’epoca al metodo sperimentale. Fu il padre di Galileo Galilei, il musicologo Vincenzo, a correggerlo facendo una verifica sperimentale, avviando così il grande figlio al culto della sperimentazione (“le sensate esperienze”).
La corda è la principale sorgente del suono musicale: comunque sia sollecitata, percossa, pizzicata, strofinata, essa emette un suono che a noi riesce gradito perché è alquanto imparentato con quello della voce umana, che parte appunto dall’oscillazione di corde vocali. In realtà, nel caso della voce, si tratta di pieghe di carne viva, che tuttavia, vibrando, emettono come le corde musicali un tono fondamentale accompagnato da una serie di ipertoni armonici, vale a dire suoni puri con frequenze che sono multipli interi di quella fondamentale. Se vogliamo, un suono armonioso per antonomasia. Di più: si sa che nel settore musicale si amano i suoni con cui abbiamo più familiarità, mentre si tende a rifiutare gli altri.
L’errore di Pitagora
La corda musicale ha interessato l’uomo fin dall’antichità. Nel VI secolo a.C. Pitagora, oltre ad accertare con il suo celebre monocordo quali coppie di note simultaneamente emesse diano una gradevole sensazione di consonanza e quali invece di dissonanza – guidando così le scelte musicali per millenni – si interessò anche di come la frequenza della nota può essere variata agendo sullo spessore della corda, sul materiale di cui è fatta e soprattutto sulla sua tensione.
È possibile valutare l’effetto di quest’ultima utilizzando lo stesso suo monocordo (figura in basso), modificato in modo da permettere una variazione calibrata della stessa grazie a un peso collegato a un capo della corda, non fissato, bensì libero di scorrere sopra una carrucola. Il peso può essere un secchiello da riempire con quantità crescenti di acqua o di sabbia.
Valutare l’altezza della nota all’aumentare del peso sarebbe stato, per Pitagora, un facile compito, giacché sapeva dai suoi studi sulla consonanza che, tenendo fissa la tensione, per innalzare la nota di un’ottava – ossia dal do a quello superiore do’ – bastava dimezzare la lunghezza della corda; per innalzarla di una quinta (do-sol) occorreva ridurla a 2/3; per una terza maggiore (do-mi) ridurla a 4/5, e così via.
Pitagora non provò questo esperimento – non sentiva l’esigenza di una precisa determinazione sperimentale – si limitò solo ad affermare pianamente che l’altezza della nota cresce proporzionalmente al peso, quindi alla tensione della corda. Se il peso raddoppia, la frequenza raddoppia, cioè la nota sale di un’ottava. Questa errata convinzione, nata da un eccessivo ottimismo sul potere dell’intuito, rimase ben radicata nelle menti dei musicisti per millenni, ossia fino al Cinquento. Ipse dixit, l’aveva detto Pitagora, e lui con i numeri ci sapeva fare!
Vincenzo Galilei
Qualcuno, invece, che alle verifiche dava molta importanza è stato Vincenzo Galilei (ca. 1520-1591), padre di Galileo, compositore, teorico della musica, ma anche abile sperimentatore: se Galileo arriverà a “inventare” la scienza, parte del merito va a Vincenzo. Si premurò di fare quanto sopra descritto, arrivando a concludere quello che oggi sappiamo, e cioè che la frequenza cresce con la radice quadrata della tensione, ossia per salire di un’ottava occorre quadruplicare la tensione. Lo stesso vale per la densità lineare della corda (la massa della corda riferita all’unità di lunghezza). Solo la lunghezza influisce sulla frequenza nel modo a suo tempo stabilito da Pitagora, vale a dire in ragione diretta, però in questo caso inversa.
Le conclusioni di Vincenzo si trovano esposte nel capolavoro di Galileo, i Discorsi del 1638:
Tre sono le maniere con le quali noi possiamo inacutire il tuono a una corda: l’una è lo scorciarla; l’altra, il tenderla più, o vogliam dir tirarla; il terzo è l’assottigliarla. Ritenendo la medesima tiratezza e grossezza della corda, se vorremo sentir l’ottava, bisogna scorciarla la metà, cioè toccarla tutta, e poi mezza: ma se, ritenendo la medesima lunghezza e grossezza, vorremo farla montare all’ottava col tirarla più, non basta tirarla il doppio più, ma ci bisogna il quadruplo, sì che se prima era tirata dal peso d’una libbra, converrà attaccarvene quattro per inacutirla all’ottava: e finalmente se, stante la medesima lunghezza e tiratezza, vorremo una corda che, per esser più sottile, renda l’ottava, sarà necessario che ritenga solo la quarta parte della grossezza dell’altra più grave.
La fisica ama notoriamente esprimersi con linguaggio matematico e chi si incaricò di questo fu l’abate francese Marin Mersenne (1588-1648) che, nel suo Harmonie Universelle del 1637, dopo scambi epistolari con Galileo, scrisse la formula che porta il suo nome:
dove f0 è la frequenza del tono fondamentale della nota, T la tensione, L la lunghezza e μ la densità lineare della corda. Una stessa nota, a parità di μ, può essere ottenuta agendo in modi complementari sulla tensione e sulla lunghezza, come illustrato nella figura di seguito riportata, ossia quadruplicare la tensione ha lo stesso effetto che dimezzare la lunghezza. A parità di L e T, una corda di chitarra in nylon (leggero, μ piccolo) produce una nota più alta di una corda in acciaio (pesante, μ grande).
Fantasia di Newton
Un punto di vista che merita di essere ricordato, in merito all’errore di Pitagora, anche se nebuloso, è quello di Isaac Newton. Eleviamo al quadrato ambo i membri della formula di Mersenne e ricordiamo che la frequenza di un’onda è data dal rapporto tra velocità e lunghezza d’onda (f = v/l). Ne viene che la tensione applicata (che è una forza) presenta una proporzionalità diretta con la massa specifica della corda, ma inversa con il quadrato della lunghezza d’onda (che è una distanza). Questo fatto, secondo Newton, implica delle forti analogie con la gravitazione, dove la forza gravitazionale agente su un corpo è proporzionale alla sua massa, ma dipende inversamente dal quadrato della distanza dal corpo attraente.
Il genio di Pitagora – sostiene Newton – non poteva non avere intuito questa importante corrispondenza, ma il filosofo aveva preferito esprimersi in modo semplificato, legando l’altezza delle note al peso traente in maniera del tutto generica, sia per non divulgare le sue idee, secondo il costume della sua scuola, sia per evitare di entrare in dettagli troppo sottili per il pubblico.
Partendo da queste considerazioni, Newton ritenne di aver scoperto la vera ragione che aveva spinto Pitagora a formulare l’armonia delle sfere celesti (la presunta musica emessa da astri e pianeti nel loro moto): «Ho pensato che con l’armonia delle sfere Pitagora intendesse simboleggiare la gravità, e allo stesso modo in cui egli fa dipendere i suoni e le note dalla dimensione delle corde, così la gravità dipende dalla densità della materia». Va qui rilevato il fatto insolito per Newton che egli evitò di attribuirsi la priorità di quest’idea: forse un ritorno di scientifico buonsenso, come a suggerire che lui stesso nutriva nei confronti di questo parallelo (oltre che della stessa armonia delle sfere) una dose di scetticismo.
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