Il 16 maggio è la Giornata Internazionale della Luce, promossa dall’UNESCO per sottolineare l’importanza dell’invisibile che ci consente il visibile. Ci sono molte iniziative in tutto il mondo dedicate alla luce, che vengono raccolte e diffuse sul sito dell’International Day of Light.
In ogni ambito scientifico la luce viene studiata e rende possibile lo studio. Gli studenti del corso Comunicare la scienza dell’Università di Bari ogni anno contribuiscono a questa giornata con l’evento LumineScienza (che si può seguire qui) dove sperimentano diversi tipi di comunicazione su questo tema. Così come non si scrive se non si legge, non si dirige un film se non se ne sono visti tanti, anche il comunicatore deve prima guardare chi ha studiato quell’argomento. Per questo abbiamo scelto di raccontare le affascinanti storie di sette “luminoscienziati”, scienziati “illuminati” che hanno cambiato il nostro modo di “vedere la luce”, da Eratostene a Madame Wu, passando per Maxwell e Tesla.
Eratostene di Cirene: datemi un bastone e misurerò il mondo
Calcolare la lunghezza della circonferenza terrestre senza la moderna tecnologia? Sembrerebbe impossibile, eppure nel III secolo a.C. un astronomo greco, Eratostene di Cirene (276 a.C.-194 a.C. circa), ci è riuscito. Più di duemila anni fa, quando le distanze in gioco erano enormi e persino la circumnavigazione della Terra era ignota!
Eratostene usò un semplice strumento: lo gnomone, un bastone piantato verticalmente in un terreno perfettamente pianeggiante. Eratostene aveva supposto che la Terra fosse una sfera illuminata uniformemente, scelse come punto di riferimento l’antica città di Siene, perché qui i raggi solari cadevano perpendicolari alla città a mezzogiorno del solstizio d’estate. In quel momento il sole insomma illuminava il fondo dei pozzi. Un bastone piantato verticalmente a terra non proiettava nessuna ombra: il sole si trovava sulla verticale del luogo. In quel giorno non si recò a Siene ma misurò l’inclinazione dell’ombra dello gnomone ad Alessandria, una città situata a nord e sullo stesso meridiano di Siene, a una distanza di 5000 stadi egizi. Stabilì quindi che la direzione dei raggi solari formava un angolo di 7,2 gradi con la verticale, cioè un cinquantesimo di un angolo giro.
Supponendo i raggi solari fossero paralleli per via della grande distanza tra la Terra e il Sole, Eratostene dedusse che l’angolo trovato fosse uguale all’angolo al centro formato dai raggi che congiungono il centro della Terra alle due città. Quindi, partendo dalle sue osservazioni, capì che la circonferenza terrestre doveva essere 50 volte la distanza tra le due città, ovvero 250 000 stadi egizi, una misura sorprendentemente accurata per l’epoca.
Zacharias Janssen: il falsario inventore
Possono un esimio falsario e un grande scienziato convivere nella stessa persona? Certo, pensiamo a Zacharias Janssen (circa 1580-1638), occhialaio olandese vissuto nel Seicento e ricordato come il padre del primo modello di microscopio, invenzione che ha spianato la strada alle più grandi scoperte della biologia.
Zacharias, figlio di un venditore ambulante, mostrò sin da piccolo una spiccata propensione a ficcarsi nei guai; per guadagnarsi da vivere aguzzava l’ingegno, trovando sempre nuovi espedienti per farla franca, anche assai poco legali. Insomma, non era esattamente uno stinco di santo! Una cosa però è certa: Zacharias sapeva cogliere le opportunità che la vita gli offriva. La grande occasione si presentò quando fu nominato tutore dei figli di un noto occhialaio dell’epoca, Lowys Lowyssen. Fu grazie al signor Lowyssen che Zacharias acquisì dimestichezza nel maneggiare specchi e vetri, apprendendo la nobile arte e rendendola ben presto la sua professione. Zacharias decise di sfruttare le sue abilità con le lenti e la conoscenza del telescopio, strumento già noto all’epoca. Cambiando gli spessori e provando nuove combinazioni, scoprì che col nuovo strumento tutti gli oggetti, anche i più piccoli, apparivano otticamente molto più grandi.
Sfortunatamente, Zacharias non riuscì mai a trovare alcuna utilità per la sua invenzione. Sempre con le tasche vuote, si limitò a venderne alcuni prototipi per ricavare un minimo profitto. Tuttavia, l’inconsapevole inventore non era ancora soddisfatto, tanto che iniziò a coltivare un nuovo passatempo: la produzione di monete false! Questa sovversiva occupazione lo portò a essere nei guai con la legge mentre il suo rivoluzionario strumento rimase su uno scaffale impolverato per alcuni anni, finché il figlio Johannes non ne comprese finalmente la portata, depositando il brevetto per riconoscerne la paternità della scoperta.
Ole Rømmer: una mente più veloce della luce
Nel XVII secolo lo scienziato danese Ole Rømer (1644-1710) ottenne per la prima volta una misurazione della velocità della luce che sino ad allora si credeva infinita. Per giungere a questo risultato dovette osservare ben centoquaranta eclissi dei satelliti di Giove assieme al collega astronomo Jean Picard.
Avviato alla matematica e all’astronomia, introdusse il primo sistema nazionale di pesi e misure in Danimarca e definì il miglio danese, utilissimo per i navigatori del tempo. Sviluppò una delle prime scale di temperatura che ha contribuito all’elaborazione dell’attuale scala Fahrenheit. Fu l’inventore dei primi lampioni stradali a olio installati a Copenaghen.
Come astronomo, Ole Rømer inventò la montatura altazimutale, tuttora utilizzata, per poter manovrare più facilmente telescopi anche molto grandi. Inoltre costruì nell’Observatorium Tusculanum il circolo meridiano: un telescopio issato su una ruota in ottone con cui poter seguire facilmente il passaggio di qualsiasi astro per un meridiano.
Il 9 novembre 1676, osservando un’eclissi della luna Io, Rømer notò per primo che questa giunge con 11 minuti di ritardo quando Giove è in congiunzione, rispetto a quando è in opposizione. In 11 minuti, quindi, la luce percorre il diametro dell’orbita di rivoluzione della Terra attorno al Sole. Con questa osservazione, lo scienziato ottenne una velocità approssimativa della luce nel vuoto pari a 220 000 km/s (contro i reali 300 000 km/s). Ai suoi tempi il diametro dell’orbita di Giove, necessario per una misurazione più precisa, era noto in modo molto approssimativo.
James Clerk Maxwell: il fisico sognante
Può una semplice intuizione rivoluzionare la scienza e la nostra vita? James Clerk Maxwell (1831-1879) è lo scienziato che forse più di tutti può fornirci risposta a questa domanda. Sin da subito ha dovuto portare il peso di essere un diverso: considerato «sciocco» dai suoi compagni di classe e “lento ad apprendere” dal suo primo insegnante. Molte volte gli fu rifiutata la cattedra di insegnamento a causa dei suoi metodi originali. Nonostante ciò, il giovane James presentava un’instancabile curiosità verso tutto ciò che lo circondava: a soli 13 anni scrisse il suo primo libro, in cui rielaborava alcune teorie cartesiane.
Durante gli studi al Trinity College entrò a far parte di un club esclusivo formato dai dodici migliori studenti della scuola, distinguendosi anche per umiltà e gentilezza. Amici e studenti testimoniavano che «nessuno più di lui era capace di nascondere la più profonda ironia sotto un velo di apparente innocenza», anche durante le sue lezioni. La forte fede religiosa influenzò il suo approccio scientifico: lo scienziato divenne un osservatore, dotato della straordinaria capacità di vedere attraverso le cose per divulgarne la conoscenza. Nonostante ciò, egli riconosceva che anche l’uomo più capace poteva talvolta non essere in grado di raggiungere la verità: non erano solo le abilità scientifiche a contare, ma anche una buona dose di fortuna.
Dedicò la sua vita alla fisica, offrendo al mondo la formulazione delle celeberrime equazioni di Maxwell, da cui discende quella delle onde elettromagnetiche. I suoi studi sul colore furono determinanti per lo sviluppo della fotografia: riteneva infatti che nell’occhio umano vi fossero recettori sensibili ai colori primari e che, elaborando i segnali, il cervello componesse poi il colore. Oltre alla scienza, Maxwell fu animato anche da una forte passione per la poesia, di cui egli stesso fu autore: ciò testimonia come la sua creatività incontrasse anche discipline lontane dal suo percorso accademico.
Nikola Tesla: l’uomo dell’alternat(iv)a
È il 1881, Budapest. Una figura alta e molto magra sta passeggiando per le strade della città all’ora del tramonto. All’improvviso la forma del sole che sta calando dietro le case colpisce la sua attenzione e in quel momento ha l’intuizione geniale, un’idea rivoluzionaria e di cui tuttora sfruttiamo le potenzialità. È Nikola Tesla (1856-1943), inventore, fisico e ingegnere elettrico conosciuto per il suo contributo all’elettromagnetismo applicato. Proprio durante una delle sue solite lunghe passeggiate, arrivò alla conclusione che per alimentare un motore elettrico avrebbe potuto usare un campo magnetico rotante e che per ottenerlo sarebbe bastato utilizzare la corrente alternata.
L’anno successivo, a Parigi, costruì il primo motore a corrente alternata e attirò l’attenzione di George Westinghouse che fondò la Westinghouse Electric Company su queste idee, entrando in competizione con il grande Thomas Alva Edison. Anche Edison, come Tesla, aveva l’ambizione di portare l’elettricità in tutte le case ma lo voleva fare utilizzando la corrente continua. Da ciò nacque la rivalità fra le due compagnie elettriche che va comunemente sotto il nome di “guerra delle correnti”. Da una parte Edison con la corrente continua e dall’altra Tesla con la corrente alternata.
E pensare che Tesla, anni addietro, aveva lavorato per Edison a cui si era presentato per un colloquio con una lettera di presentazione che recitava: «Conosco due grandi uomini: uno è lei, l’altro è questo giovane». I rapporti tra i due collassarono a causa di un compenso mai versato. Chi vinse la guerra delle correnti? Possiamo constatarlo noi stessi: oggi è universalmente utilizzato il sistema delle correnti alternate, quello ideato da Tesla!
Williamina Fleming: riflettori su una donna di scienza
Immagina di trovarti sdraiato su un prato di notte, lontano dalle luci della città. Lo vedi il cielo puntinato di stelle? Hai mai provato a contarle tutte? Più di un secolo fa, una donna è stata in grado di contarne ben diecimila! Ciò è stato possibile grazie a un sistema di classificazione da lei ideato, che le ha permesso di catalogarne così tante. La geniale protagonista di questa storia è l’astronoma Williamina Fleming (1857-1911). Prima del suo lavoro, la catalogazione delle stelle era condotta in maniera generica e si basava su dati di difficile comprensione.
Williamina inventò un metodo divertente e facile da ricordare anche per gli scienziati più distratti che recita: «Oh, Be A Fine Girl, Kiss Me!», che significa “Oh, sii una brava ragazza, baciami!”. Non è forse la miglior frase da rivolgere a una ragazza che ci piace, ma le sue iniziali ricordano i gruppi in cui le stelle sono suddivise in base alla propria temperatura. In un periodo storico in cui la scienza era prerogativa degli uomini, Williamina ha dimostrato che le donne, quando non vengono ostacolate, possono raggiungere risultati grandiosi.
Chi era Williamina? Dopo essere stata abbandonata a 21 anni dal marito perché incinta, si trasferì ad Harvard per lavorare come cameriera presso il laboratorio astronomico di Edward Charles Pickering. Durante una discussione con i suoi ricercatori, Pickering offrì a Williamina la possibilità di lavorare in ufficio (della serie “la mia cameriera saprebbe fare meglio di voi!”): fu proprio in quest’occasione che Williamina dimostrò di avere capacità di calcolo fuori dal comune. Nel 1881 fu perciò assunta come ricercatrice dell’osservatorio astronomico. La sua carriera fu, è il caso di dirlo, costellata da enormi successi, divenendo la prima donna americana a essere eletta nella Royal Astronomical Society. Durante la sua carriera, la scienziata scozzese scoprì 310 stelle variabili, 10 nove e 52 nebulose, lasciandoci così una maggiore consapevolezza dell’immensità dell’Universo.
Chien Shiung Wu: studiando la luce nell’ombra
Ti è mai capitato di non essere invitato a una festa? A Chien Shiung Wu (1912-1997) è successo. Nel 1957, alla cerimonia di premiazione del Nobel, c’erano entrambi i suoi collaboratori ma lei, che aveva ideato e guidato l’esperimento vincitore, non fu invitata. Per ironia della sorte, la scoperta per cui i collaboratori di Madame Wu vinsero il Nobel è su una proprietà delle particelle atomiche detta parità.
Per comprendere questo concetto basta immaginare di poter guardare una mela che cade verso il basso sia nella realtà che riflessa in uno specchio. Se non c’è differenza tra il mondo vero e lo specchio, possiamo dire che la mela che cade è un fenomeno in cui la parità è conservata. Se invece c’è differenza, significa che nel fenomeno la parità non è conservata. L’esperimento di Madame Wu dimostrò che le particelle atomiche non rispettano la parità perché possono emettere fotoni in modo asimmetrico. La giuria del premio, i premiati, gli insegnanti e gli alunni di fisica erano soli uomini e in questo ambiente una donna asiatica come lei faticò a farsi strada. Tanto è vero che riuscì a far brillare le sue capacità e la sua preparazione solo quando il professor E. Lawrence le offrì un posto di lavoro nel suo laboratorio. Da quel momento venne soprannominata “la regina della fisica” e nel 1978 fu la prima donna a vincere il premio Wolf.
Il cognome “Wu” in cinese ha vari significati, tra cui “non esistere” e “cinque”, a seconda di come viene pronunciato. Chien Shiung riuscì a passare dal non esistere per la comunità scientifica a valere quanto i suoi colleghi. Il problema è che dovette faticare cinque volte tanto per ottenere lo stesso riconoscimento. Il resto della sua vita Madame Wu lo passò a tenere discorsi in tutta l’America ricordando a ragazze e ragazzi che le caratteristiche fondamentali di uno scienziato sono intelligenza e curiosità e non l’essere uomo o donna.
Immagini © Wikimedia