Al ritorno da sei mesi in orbita, l’astronauta italiano racconta la sua esperienza di vita e di lavoro sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Ero al telefono con Luca Parmitano già da una ventina di minuti quando mi ha detto: «Se senti che a volte prendo fiato è perché sono in bicicletta». Non capita tutti i giorni di intervistare un astronauta, meno che mai mentre se ne va in bici da qualche parte negli USA. Ma non potevo sperare in un’immagine migliore per descrivere il personaggio, la sua disponibilità a raccontarsi e a raccontare, la grande preparazione fisica e mentale e una immediatezza che lascia spesso, noi sì, senza fiato.
Un astronauta e uno scienziato hanno un sentire comune: spinti dal desiderio di sapere, non sono attratti da ciò che si conosce ma da quello che è ancora incerto, che va ancora capito. Sebbene in maniera diversa, entrambi non vedono l’ora di mettersi alla prova, anche a costo di prendere dei rischi. Concordi?
Sono un test-pilot, mettere alla prova un velivolo da collaudare è il mio mestiere. Però nello spazio ho fatto meno guai di quanto avrei potuto! Non bisogna mai dimenticare che è un ambiente davvero ostile e bisogna trovare un buon bilanciamento tra rischio e sicurezza, ma soprattutto avere la capacità di trasformare ogni guaio in un’opportunità per imparare qualcosa di nuovo, per migliorare le tecnologie e le procedure che si usano.
Ti riferisci in particolare ai “guai” avuti durante la tua seconda passeggiata spaziale, quando il casco ha cominciato a riempirsi d’acqua?
Certo non è stata un’esperienza piacevole, ma non vorrei nemmeno che i miei sei mesi di vita e di scienza nello spazio si riducano ai problemi avuti in pochi minuti di attività extraveicolare: per noi è stato comunque un giorno buono. Innanzitutto perché abbiamo dimostrato che la risposta a una situazione di emergenza come quella, sia da parte del team a terra che dell’equipaggio della ISS, è stata perfetta: altrimenti non sarei qui a parlarne! Poi abbiamo imparato molto su come migliorare le tute, ci siamo posti un sacco di domande che altrimenti non ci saremmo mai fatti e abbiamo trovato delle soluzioni (le nuove tute spaziali sono in via di realizzazione e il nostro contributo si sta dimostrando fondamentale). Insomma ci siamo chiesti cos’è che ancora non sappiamo, che non abbiamo considerato o che dobbiamo ancora scoprire. In effetti, sono proprio queste le domande che si pone uno scienziato. Diciamo che se uno scienziato cerca dei contesti in grado di fornirgli informazioni che possano convalidare o smentire un’ipotesi su qualche fenomeno naturale, un astronauta cerca quali siano i punti critici di un sistema, di una macchina o di un apparato. E infilarsi la tuta, aprire il portello e galleggiare nello spazio, questo significa per me fare l’astronauta.
Che la Terra sia rotonda lo sanno tutti. Ma spesso si dimentica che è stata una scoperta fatta «con gli occhi della mente» perché dalla superficie del nostro pianeta il mondo sembra davvero piatto…
Quando sono partito per la Stazione Spaziale Internazionale mi ero posto due obiettivi: vedere con i miei occhi che la Terra è tonda e dimostrare che gira su se stessa. Ovviamente raggiungere il primo obiettivo non è stato difficile, più che altro emozionante: essere tra i pochi privilegiati a poter contemplare la curvatura del mondo – dove la Terra incontra il cielo – e la linea del terminatore che divide il giorno dalla notte, è una sensazione inebriante. Ora posso dire «io l’ho visto!». Con un po’ di disappunto ho invece scoperto che misurare la rotazione della Terra non era affatto banale, perché bisogna farlo da un’astronave che sfreccia a 28 000 km/h su una traiettoria quasi circolare e quindi il “giorno” sulla ISS dura appena un’ora e mezza. Insomma, giravo attorno alla Terra molto più velocemente della Terra su se stessa e su una traiettoria inclinata rispetto all’equatore. Alla fine ho dovuto ricorrere a un complicato sistema di “puntamento” che mi ha insegnato un altro astronauta che si era già scervellato per trovare la soluzione. In effetti c’è un posto speciale sulla ISS da cui si gode di una vista magnifica sul nostro pianeta: la “cupola”, uno dei maggiori contributi dell’industria spaziale Europea e in particolare italiana. Si tratta di una sorta di osservatorio che sporge dai moduli abitati e con i suoi grandi finestroni permette di guardarsi tutto intorno. È tra i posti più frequentati della stazione spaziale, soprattutto nei momenti di pausa, e dato che è posizionata “a testa in giù” (anche se nello spazio sopra e sotto sono concetti relativi), quando si guarda in alto invece di vedere le stelle, si vede la Terra splendere con tutti i suoi colori. È da lì che ho fatto il mio esperimento sulla rotazione della Terra, prendendo come riferimento regioni caratteristiche del nostro pianeta facilmente riconoscibili dallo spazio, per esempio isole o montagne, che mi venivano incontro in maniera diversa da quella che mi sarei aspettato se la Terra fosse stata ferma.
E la Luna? E le stelle? Come si vedono dallo spazio?
Mi spiace deludere gli astronomi ma a occhio nudo il cielo non è molto diverso da quello in una notte limpida sulla Terra. Forse la Luna appare un po’ più luminosa perché non c’è l’effetto opacizzante dell’atmosfera. Il fatto è che la Stazione Spaziale orbita a 400 km di altitudine e questo vuol dire aver accorciato di appena un millesimo la distanza che ci separa dal nostro satellite. Quello che è veramente unico è poter guardare contemporaneamente Terra e Luna sospese nello spazio, vedere i loro orizzonti che si sovrappongono. Oppure seguire il veloce sorgere delle stelle dietro il sottile velo dell’atmosfera. Dalla ISS non si può competere con i grandi telescopi terrestri, con le loro ottiche computerizzate e i sensori elettronici – però un piccolo vantaggio pratico c’è: con il cattivo tempo sulla Terra non c’è tecnologia astronomica che tenga, mentre noi astronauti voliamo più in alto di qualsiasi nuvola!
Hai provato quello che molti scienziati ti invidiano: ingannare la forza più ostinata dell’Universo: la gravità. È per questo che ti abbiamo visto ridere come un bambino quando sei entrato volando nella ISS?
La prima occasione di provare l’assenza di peso avviene quando il motore dell’ultimo stadio del razzo si spegne, lasciandoci in “volo libero”. Nella capsula Soyuz però lo spazio è davvero poco (è grande quanto una cabina telefonica!) e così si percepisce più che altro una sensazione “fisica”: è il tuo corpo che si accorge improvvisamente che non c’è più una direzione privilegiata. Dal punto di vista medico, significa che l’orecchio interno non sente più l’accelerazione di gravità e a molti astronauti questo provoca una forte nausea, chiamata appunto “mal di spazio”. A me fortunatamente non è successo, mi è sembrato solo che ci fosse qualcosa di strano nell’aria… ma appena si è aperto il portello e sono entrato fluttuando nella stazione spaziale ho provato un senso di libertà totale.
Ero talmente euforico che quando ho visto che il mio amico astronauta Chris Cassidy si era rasato la testa appositamente per darmi il benvenuto, non ho potuto che rotolarmi (letteralmente!) dal ridere.
Ciò non significa che non sia necessario un periodo di adattamento all’assenza di peso: bisogna re-imparare come muoversi, anche le azioni più banali devono essere eseguite diversamente rispetto a quanto uno è abituato a fare sulla Terra. Io sono stato molto rapido: ci ho messo 3 settimane perché il mio fisico si sentisse di nuovo perfettamente a suo agio e 6 settimane per cominciare a muovermi con naturalezza. E sono convinto che se un giorno la permanenza umana nello spazio diventerà più numerosa e stabile, allora dovremo evolverci verso una nuova specie: l’Homo Stellatum!
Durante la tua permanenza sulla ISS c’è stato un andirivieni di “carghi” spaziali, alcuni anche di compagnie private: è l’inizio della commercializzazione dei voli spaziali umani?
Nei 166 giorni che ho trascorso in orbita, c’è stato in effetti parecchio traffico: sono arrivati e poi ripartiti l’ATV (“Automated Transfer Vehicle” europeo battezzato “Albert Einstein”), il suo equivalente giapponese e due carghi privati: la capsula Dragon di SpaceX e il Cygnus di Orbital Science, progettati e realizzati da società americane. Ciascuna di queste missioni aveva una sua ragion d’essere: l’ATV è una sofisticata navetta spaziale progettata e realizzata dall’Agenzia Spaziale Europea, in grado di avvicinarsi e attraccare in automatico alla Stazione Spaziale. Dragon invece è un approccio low-cost ai viaggi spaziali sia per dimensioni che per complessità: è il braccio robotico della ISS che si fa carico di agganciarla e posizionarla opportunamente davanti alla sua “porta d’imbarco”. Personalmente, penso che questa varietà di approcci possa solo arricchire le scienze astronautiche: la commercializzazione è un modo di semplificare l’accesso allo spazio e se tutto ciò porta anche a una maggiore collaborazione tra chi è impegnato nei voli spaziali, allora non può che essere un passo positivo. Dato che la dipendenza della Stazione Spaziale dalla Terra è totale, per noi l’arrivo di un cargo era un po’ come il giorno di Natale: c’erano tanti pacchi da aprire, ognuno con la sua “sorpresa”: cibo fresco, equipaggiamenti, nuovi esperimenti da realizzare.
L’Italia ha un’eccellenza scientifica nello studio degli asteroidi, l’ESA ha un centro per il monitoraggio degli oggetti pericolosi, la NASA pensa di realizzare una missione umana verso un asteroide dopo il 2021. Ti candideresti per far parte dell’equipaggio?
Io sono pronto: ho 37 anni, sono il più giovane astronauta che abbia partecipato a una missione di lunga durata sulla Stazione Spaziale e fino a quando mi sosterrete io sono con voi! Scherzi a parte, per me è un buon momento e spero proprio di avere ancora occasione di volare in futuro – andare oltre la Luna poi sarebbe davvero fantastico!
Sei entrato nel Corpo Astronauti Europeo nel 2009 dopo una selezione durissima che ne ha scelti 6 partendo da più di 8000 candidature, giusto?
Le candidature erano 8420 per la precisione. È stata un’avventura incredibile che mi ha insegnato molto. All’inizio la tensione è altissima perche tutto dipende da te e ti fai un sacco di domande, prima fra tutte: il mio curriculum sarà adeguato? Si tratta di una selezione “di conoscenza” in cui la tua vita viene messa sotto una lente di ingrandimento. Oltre alle competenze tecniche, l’esperienza, i diplomi, i riconoscimenti e le pubblicazioni, contano molto le attività “collaterali”, cioè quelle che hai portato avanti indipendentemente dal lavoro, per passione – come nel mio caso il paracadutismo e le immersioni subacquee. Fare l’astronauta è un mestiere abbastanza strano: bisogna avere un’alta specializzazione, ma essere in grado di ricoprire anche ruoli diversi, a seconda delle evenienze.
Da questa prima selezione ne siamo usciti in un migliaio. Sono quindi iniziate le prove psicoattitudinali e di coordinamento sia del corpo che della memoria, come ad esempio la capacità di visualizzazione spaziale. Anche qui moltissimo dipende da te, devi aver curato come si deve la preparazione atletica e quella mentale.
Superata anche questa fase iniziano le prove psicologiche e mediche. E qui ci si comincia a rilassare. Non fraintendetemi, non è che cali la tensione, anzi, più vai avanti più cominci a credere sul serio che il tuo sogno si avveri e le aspettative crescono: ti senti solo più sollevato dal punto di vista della responsabilità. Se il tuo fisico, il tuo comportamento, il modo con cui interagisci con la gente è quello che loro cercano, questo dipende solo in parte da te. Quando si tratta delle tue caratteristiche di base, non esiste un meglio o un peggio: sei valutato per quello che sei, e non per quello che fai.
In quel momento, ti rendi conto che essere o meno selezionato dipende da un misto di merito e di fortuna. Devi essere l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto: diciamo che ognuna di queste caratteristiche conta per 1/3 del totale. Certo, ogni volta che ricevi la fatidica mail in cui ti comunicano che hai superato una fase della selezione è una grandissima gioia e quando ho saputo che ero tra i prescelti la soddisfazione è stata enorme, ma cerco di non dimenticare mai che sono anche una persona fortunata.
La tua missione è stata battezzata “Volare” in omaggio a Domenico Modugno. È vero che volare nello spazio ti ha ricordato un altro grande musicista?
Non si finisce mai di riempirsi gli occhi dei paesaggi mozzafiato e dei colori meravigliosi che la Terra offre a chi la guarda dallo spazio – non mi stancherò mai di ripeterlo. Ma c’è un’altra cosa che colpisce in maniera altrettanto forte: l’assoluta assenza di confini visibili che non siano dettati dalla geografia del territorio. Da lassù bisogna richiamare le proprie nozioni scolastiche per distinguere un paese dall’altro. Allora capisci che i confini sono un’invenzione perversa del genere umano, nata per dividere: in realtà le terre degli uomini sono un continuum. Un continente come l’Europa, dallo spazio si riconosce solo dalle sue forme naturali: a sud le linee frastagliate del Mediterraneo, le sue insenature, poi i grandi fiumi che l’attraversano, fino a giungere alla Scandinavia con i suoi fiordi merlettati. Non si vedono confini, semplicemente non ci sono, e a quel punto non può non risuonarti in testa Imagine di John Lennon e in particolare il verso Imagine there’s no countries, it isn’t hard to do…
Modugno, con il suo Blu dipinto di blu era un sognatore, come Lennon, e i sognatori sono quelli che vedono prima e più lontano degli altri – noi possiamo solo imparare da questi pionieri che riescono a guardare ben oltre il visibile. La mia missione è stata battezzata “Volare” – un nome che racchiude molti punti di riferimento della mia vita, e che proprio mentre ammiravo la Terra sconfinata sotto i miei occhi si è arricchito di un ulteriore significato, legato a una figura che mi è particolarmente cara. L’aviatrice americana Amelia Earhart, la prima donna a compiere in volo la traversata atlantica, diceva sempre che volare significa nessun confine: solo orizzonti. Mi piace pensare che sia questa l’evoluzione a cui tutti dobbiamo mirare.
Stazione Spaziale Internazionale. La costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS – International Space Station) ha inizio nel 2000 e prevede l’assemblaggio in orbita della più grande struttura spaziale mai realizzata. All’impresa partecipano dieci paesi europei coordinati e rappresentati dall’ESA, il Canada, il Giappone, la Russia e gli Stati Uniti. Oggi la ISS è pienamente operativa e rappresenta un avamposto permanentemente abitato nello spazio circumterrestre al cui interno si danno il cambio equipaggi formati da 6 astronauti (le cosiddette “Expeditions”) per periodi di 6 mesi ciascuno. A bordo si svolgono le operazioni di manutenzione della Stazione Spaziale e si eseguono esperimenti scientifici, dallo studio dell’adattamento umano all’ambiente spaziale ai rilevatori di particelle elementari.
La Missione “Volare”. La missione “Volare” – la prima di lunga durata dell’Agenzia Spaziale Italiana – inizia il 28 maggio 2013 con il lancio di una navicella Soyuz dal cosmodromo di Baykonour con a bordo l’italiano Luca Parmitano, il comandante russo Fyodor Yurchikhin e la statunitense Karen Nyberg. I tre astronauti danno il cambio ad altrettanti colleghi che terminano il loro “turno” di 6 mesi, dando così inizio alla “Expedition 36/37”. Durante la sua permanenza a bordo, oltre alle attività di routine e alla conduzione di esperimenti scientifici, Luca Parmitano effettua due attività extraveicolari. La missione termina con il rientro a terra il 10 novembre 2013. Il nome “Volare” è stato scelto attraverso un concorso aperto a tutti, di cui è risultato vincitore il milanese Norberto Cioffi.
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