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25 Gen 2022

Indaco: il padre dei colori sintetici

Giorgio Rizzo

Giorgio Rizzo
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L’indaco è stato da sempre un bene di lusso, non per i costi di produzione, quanto il trasporto, essendo importato dalle remote terre orientali. I Greci lo chiamarono Indikon, ovvero proveniente dall’India, primo centro nevralgico di produzione del pigmento. In queste terre abbondava la Indigofera tinctoria, la principale fonte naturale di indaco.

 

I primi usi dell’indaco

Si tratta di un pigmento antichissimo. Le più remote testimonianze risalgono a testi sanscriti del terzo millennio a.C., con un consistente utilizzo da parte degli Egizi nel 2400 a.C. per colorare le strisce di lino usate per avvolgere le mummie. Greci e Romani riservarono la tinta alle più alte cariche dello Stato, dopo il porpora di Tiro. L’indaco continuò a essere esportato in piccolissime quantità fino al Medioevo europeo, in cui l’Italia divenne il principale punto di smistamento per le altre nazioni.
La svolta avvenne quando Vasco Da Gama scoprì una rotta per la Cina con scalo in India nel 1603. Il prestigio di questo pigmento era così elevato che nel 1631 vennero acquistati 150 kg di indaco al prezzo di oltre 4500 kg di puro oro.

 

Come si estrae il pigmento

L’estrazione del pigmento è un processo rimasto pressoché invariato nei millenni. L’intera pianta di Indigofera viene raccolta in fasci e immersa per almeno 15 ore in vasche di fermentazione con acqua fresca. Tramite uno scolo, la soluzione giallastra viene raccolta in una seconda vasca in cui viene ripetutamente battuta, al fine di intrappolare l’aria che lentamente ossida i metaboliti. Ancora oggi questa tecnica è effettuata da lavoratori immersi nelle vasche fino alle ginocchia che, tenendosi sui bordi, agitano le gambe ripetutamente e ritmicamente al fine di ossigenare la soluzione. L’indaco, scarsamente solubile in acqua, inizia a flocculare e lentamente precipita sul fondo della vasca. Un secondo canale di scolo rimuove l’acqua di decantazione, lasciando una melmosa pasta bluastra sul fondo, che viene raccolta, fatta bollire in appositi calderoni per rimuovere le impurezze e infine pressata per ricavarne una massa densa.

 

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La sintesi dell’indaco

Dato il costo ancora troppo elevato del prodotto naturale, nell’Ottocento molti chimici cercarono di sintetizzare l’indaco, benché non si conoscesse ancora la sua struttura chimica. Questa venne attribuita nel 1883 da Adolf von Baeyer, dopo aver provveduto alla sua sintesi nel 1880 a partire dal toluene. Il problema tuttavia permaneva, dal momento che il toluene era comunque un prodotto molto difficile da ottenere.
Qualche anno prima, il chimico Otto Unverdorben aveva ottenuto un composto aromatico per idrolisi di indaco naturale in soda caustica che chiamò anil, in riferimento al nome sanscrito nili dell’indaco. Gli Arabi presero in prestito il termine e lo riadattarono in al-nil, ovvero blu. Gli spagnoli terminarono l’opera derivando ulteriormente il nome in anil per indicare l’indaco. Il prodotto ottenuto dalla decomposizione era dunque l’anilina, il capostipite dei moderni coloranti sintetici. Baeyer trovò una procedura sintetica che partiva proprio dall’anilina e che ancora oggi viene utilizzata industrialmente. Queste ricerche gli valsero il premio Nobel per la Chimica nel 1905.
Il precursore naturale è il glicoside indicano che, fermentando, libera lo zucchero e diviene indossile. Questo, per ossidazione all’aria, accoppia a indaco, anche se piccole percentuali di sottoprodotti quali isatina (giallo) e indirubina (rosso) sono presenti. La chimica di tintura è alquanto particolare, poiché l’indaco come tale non è solubile in acqua e non può trasferirsi sul tessuto. La forma attiva è il leucoindaco, una forma ridotta del pigmento che, possedendo due cariche negative, diviene solubile e incolore, permettendo il fissaggio sul tessuto. La lenta esposizione del capo colorato ai raggi solari e all’ossigeno causa la reazione inversa di ossidazione a indaco, restituendo il profondo blu.

Giorgio Rizzo
Giorgio Rizzo
Giorgio, laureatosi in Chimica con specializzazione magistrale in Chimica dei Sistemi Molecolari, oggi frequenta la scuola di Dottorato in Scienze Chimiche e Molecolari presso l’Università di Bari.
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