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17 Dic 2020

Siri, Alexa, Cortana e le altre: perché gli assistenti digitali hanno sempre una voce femminile?

Carla Petrocelli

Carla Petrocelli
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Qualche giorno fa, quasi per caso, mi sono trovata a riflettere sul fatto che la voce dei navigatori satellitari, ormai nostri immancabili compagni di viaggio, è quasi sempre femminile. Incuriosita, ma a dir la verità subito allarmata, ho dato uno sguardo anche ai più noti “assistenti virtuali” in commercio, quelli cioè che ci accompagnano, ci aiutano o semplicemente ci fanno compagnia nella nostra quotidianità, quelle voci, insomma, che di tanto in tanto saltano fuori dai nostri dispositivi Alexa, Cortana o Siri.
Riflettevo che, effettivamente, a eccezione di HAL 9000 nel capolavoro di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio (1968), la maggior parte delle voci e dei nomi associati alle intelligenze artificiali senza volto sono femminili: Alexa di Amazon è dedicato all’antica biblioteca di Alessandria d’Egitto; Cortana di Microsoft emula la protagonista della serie di videogiochi Halo (che per giunta appare come una donna sensuale e senza vestiti); Siri di Apple è un nome norvegese che significa “bella donna che porta alla vittoria”. Fa eccezione Google Assistant, noto anche come Google Home, che ha un nome neutro dal punto di vista del genere, ma voce di default femminile: Google ha preferito che il suo assistente fosse un’estensione del motore di ricerca, piuttosto che un prodotto separato con una “identità” differente.

 

Perché l’assistente virtuale è “donna”?

Non è difficile capire che a guidare queste scelte vi siano, da parte delle aziende, ricerche di marketing: è importante scegliere un nome che possa essere facilmente riconosciuto, agevole da ricordare, semplice da pronunciare, ma non sia eccessivamente diffuso (per non essere innescato involontariamente). Un nome che deve poi adattarsi bene al marchio della società perché, se pronunciato congiuntamente, non deve generare cacofonie. Va da sé poi che, trattandosi di un nome femminile, nella sua impostazione predefinita, vada a proporre necessariamente voci femminili.
A ben guardare, sembra che le radici dell’equazione “assistente = donna” si perdano nella notte dei tempi. Pensiamo ad esempio alle operatrici telefoniche (sempre donne!) e alle loro voci gentili ed efficienti; i nostri moderni “assistenti virtuali” ce le ricordano istintivamente e il loro “come posso aiutarti?” appare come una variazione delle più antiche “il numero da chiamare, per favore” o “rimanga in attesa, prego…”
Alla fine degli anni ’90, la BMW ha dovuto ritirare e riprogrammare il navigatore satellitare onboard su uno dei suoi modelli perché gli automobilisti tedeschi si lamentavano di “non voler prendere istruzioni da una voce femminile”. I call center automatizzati delle società di brokeraggio in Giappone forniscono le quotazioni delle azioni con voce femminile ma confermano le transazioni con voce maschile. Quindi i modelli maschili esistono eccome, ma sono contestualizzati in situazioni completamente differenti. Anche quando esiste un’alternativa con voce maschile, non è mai l’opzione predefinita: bisogna cercarla, aspettare che il dispositivo scarichi tutti dizionari e poi cambiare impostazioni… capite bene che non è proprio un’operazione immediata!
Nel rapporto pubblicato nel 2019, I’d Blush if I Could (“Arrossirei se solo potessi”, titolo che deriva da una risposta standard di Siri ad attacchi verbali sessisti), l’UNESCO afferma che le voci dei sistemi virtuali «riflettono e rafforzano l’idea che gli assistenti – coloro cioè che agiscono con un ruolo di aiuto e sostegno alle attività altrui – siano donne». Professionali ma personali, ripropongono nel mondo asettico dell’informatica il ruolo millenario della donna al servizio dell’uomo, alimentando l’idea che le donne siano sempre disponibili, docili e desiderose di aiutare, semplicemente con un tocco o con un comando vocale come “ok” oppure “hey”.

 

Un “pregiudizio di genere” tecnologico

L’ossequio e il servilismo di questi assistenti digitali mascherati da giovani donne forniscono una perfetta fotografia dei pregiudizi di genere “codificati” nei prodotti tecnologici. «Si sta mettendo un timbro pericoloso sulla società – prosegue il rapporto – poiché si possono influenzare le interazioni con le donne nella vita reale: più le donne appaiono come “assistenti”, più saranno viste SOLO come delle assistenti o, ancora peggio, penalizzate per NON esserlo».

 

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Le ragioni delle aziende

Le aziende giustificano l’uso di voci femminili facendo riferimento a studi che dimostrano che i consumatori le preferiscono, perché generalmente più cordiali. Amazon ha stimato che la voce di Alexa ha un impatto economico diretto in quanto, come intermediaria al momento dell’acquisto, accompagna l’utente con un timbro vocale premuroso, quasi fosse un’amica, una madre o una sorella maggiore con cui si sta facendo shopping. Microsoft ha invece dichiarato che l’azienda ha scelto una voce femminile per Cortana perché incarna al meglio le qualità che ci si aspetta dall’assistente: deve essere utile, affidabile e cordiale. E ancora, si ritiene che le donne tendano ad articolare più chiaramente i suoni delle vocali o che il tono della voce femminile sia più facile da sentire; si pensa inoltre che sia gli uomini che le donne si affezionino di più a una voce femminile, cosa che non accade per i timbri maschili.

 

Assistenti virtuali, discriminazioni reali

Mi paiono, queste, argomentazioni francamente inconsistenti, ma sono quelle su cui le aziende hanno radicato le loro scelte progettuali. Ritengo invece che sia la “tecnologia” stessa a nascondere un problema di genere: anche in aziende con centinaia di dipendenti non è insolito che il numero di donne ingegnere o informatiche sia a una sola cifra. I team tecnici sono per lo più composti da uomini, che quindi sviluppano tecnologia guardando solo la loro prospettiva. Ne troviamo conferma anche nel rapporto UNESCO, nel quale si evidenzia una disparità di genere molto accentuata con una presenza femminile di appena il 15% in ruoli di alto livello nelle grandi aziende tecnologiche e solo del 12% nel campo di ricerca sull’Intelligenza Artificiale: la scarsa rappresentazione delle donne ha indubbiamente favorito il perpetrarsi di stereotipi maschilisti nei prodotti finali.
Oltre che essere un valore fondamentale, l’uguaglianza di genere è un diritto. Tuttavia, nel concreto, le discriminazioni rimangono una realtà tutt’altro che superata. L’unica speranza è riposta nei processi educativi delle nuove generazioni: bisogna necessariamente superare il radicato pensiero che “la tecnologia sia solo per i ragazzi” e andare a riequilibrare quella parità di genere che finalmente comincia ad avere un ruolo preponderante nei Piani strategici europei.
Auguriamoci, pertanto, un futuro in cui ci sia data l’opportunità di sentir tuonare da una voce maschile “Ciao, sono Siri!”, magari dal nostro virtual assistant George, o John, o Paul, oppure Ringo (si capisce che sono fan dei Beatles?).

Carla Petrocelli
Carla Petrocelli
Carla Petrocelli insegna Storia della rivoluzione digitale presso l'Università di Bari. Studiosa del pensiero scientifico moderno, si è specializzata nell'evoluzione del calcolo automatico focalizzando l'attenzione sul rapporto tra uomo e tecnologia e sulle sue ripercussioni antropologiche. È autrice di numerosi contributi scientifici dedicati alla storia dei linguaggi di programmazione e ai protagonisti dell'informatica.
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