Ho appena finito di leggere l’articolo Musica “antimusicale”, pubblicato sull’ultimo numero di Sapere dal noto scienziato e musicologo britannico Philip Ball, che sulla quella rivista tiene regolarmente la bella rubrica L’istinto musicale (ispirata al suo libro omonimo). Finalmente una voce autorevole che afferma quanto io vado sostenendo da vari anni con libri e articoli, e cioè che certa musica del Novecento e i suoi derivati, sono non-musica, sono combinazioni di suoni che ignorano i canoni della musica classica, maturati in secoli e secoli di composizione musicale: la tonalità, l’armonia, la melodia, il ritmo. Anzi, deliberatamente composti in modo da andare contro di essi, una non-musica fatta di suoni generati secondo regole arbitrarie inventate all’uopo.
Sulla musica atonale
Scrive Ball a proposito della musica atonale (dodecafonica) inventata da Schönberg a Vienna circa un secolo fa: «respinge qualsiasi organizzazione basata sulla tonalità e “libera” invece le note in modo che nessuna abbia un ruolo speciale rispetto alle altre. Il risultato è una proliferazione di armonie dissonanti, di note apparentemente slegate tra loro e melodie che sembrano vagare senza una meta». Quel ruolo speciale riconosciuto dai Pitagorici e ripreso poi da Aristotele nel concetto di Mese.
Io avrei preferito che si dicesse melodie “che vagano” senza una meta, non “che sembrano vagare”: esse tolgono obiettivamente alla frase musicale ogni elemento di aspettativa, ogni collegamento con quanto è accaduto prima, e soprattutto ogni possibilità di interlocuzione tra consonanze e dissonanze, in sostanza producendo un impoverimento espressivo. Ball precisa: «Come ho spiegato in articoli precedenti, la capacità di nutrire aspettative e percepire rapporti tra le note è fondamentale per fare dell’ascolto della musica un’esperienza coerente». Schönberg sosteneva che la dodecafonia ci risulta poco accettabile perché, dopo secoli di evoluzione musicale in ambito tonale siamo imbevuti di tonalità. Secondo Ball, una mera questione di assuefazione.
Perché ci piace certa musica?
Ho scritto in proposito un libro, Armonia celeste e dodecafonia (BUR Rizzoli), in cui credo di avere almeno in parte provato che il nostro cervello, pur avendo ampie potenzialità di plasmarsi e potenziarsi di fronte a messaggi nuovi e inusitati, ha pur sempre delle preferenze innate. E, guarda caso, ama le combinazioni di suoni che hanno tra loro delle affinità armoniche, in una parola predilige proprio quegli accordi in cui le note hanno molti armonici in comune, come gli accordi consonanti della musica tonale, a cominciare dalla quinta perfetta do-sol e dall’accordo fondamentale di tonica do-mi-sol (in scala di tonalità do maggiore). Ciò perché in tal caso, i segnali elettrici che circolano nel nostro cervello – in gergo spari neurali – si presentano come una successione di picchi molto nitida su un fondo privo di rumore, che si presta a un facile conteggio. Per il cervello, i treni di spari neurali generati da accordi classicamente consonanti sono più facili da elaborare. Ricordate il pensiero di Leibniz «Musica è il piacere che la mente umana prova quando conta senza essere conscia di contare»?
La morfologia “limpida”, inoltre, semplifica i meccanismi di elaborazione mentale, favorisce l’attenzione, l’immediatezza del responso, l’aspettativa e la memorizzabilità, in tal modo generando un contesto. Ebbene, niente del genere può avvenire se si compone contro i criteri di base della consonanza tonale. Nella figura che segue sono posti a confronto i treni di spari neurali calcolati per un bicordo dissonante (VII maggiore do-si) e uno altamente consonante (V perfetta do-sol). Esperimenti fatti da neuroscienziati tramite sonde inserite nel cervello di gatti confermano strettamente gli andamenti calcolati.
Nelle parole di Ball: «La serie di note [nelle composizioni dodecafoniche] non è cognitivamente visibile». Lo scienziato britannico arriva alla conclusione: «Se il suo ascolto vi mette in difficoltà non è perché siete poco sofisticati musicalmente, ma perché sfida i principi cognitivi» e io aggiungo: “Anche perché va oltre i limiti biologici di un cervello mediamente acculturato”. La mia tesi è dunque che la teoria classica dell’armonia non è una convenzione, ma invece il riconoscimento di caratteristiche percettive essenziali del sistema uditivo e dei sistemi cognitivi associati, valendo questo per tutte le popolazioni della Terra, in particolare nell’infanzia, ossia per i cervelli ancora digiuni di musica.
Naturalmente, un cervello “imparato” accetta, anzi esige, più complessità e sofisticazione. Lo testimonia il successo dei grandi compositori del Novecento, vale a dire Stravinskij, Prokofiev, Shostakovich, Bartok, Janacek, Ravel, Gershwin, per citarne solo alcuni. Se dovessi farne un elenco completo riempirei un’intera pagina.
Questa mia visione è stata accolta con entusiasmo da una vasta cerchia di musicisti, in particolare gli strumentisti che suonano nelle orchestre, ma è stata avversata da quei compositori d’avanguardia che, come Schönberg, forse perché dotati di poco talento, hanno cercato vie alternative, anteponendo il nuovo al vero, come amava ripetere il compositore italo-rumeno Roman Vlad, che ha scritto una delle due prefazioni al mio libro (l’altra è di Giorgio Parisi, oggi fresco di Nobel). C’è chi mi ha aggredito con rabbia ottusa, non riconoscendomi nemmeno il tentativo di portare un contributo alquanto nuovo a una problematica che si trascina da decenni. «Ironicamente», sottolinea Ball, «negli anni ’50 questo atteggiamento è divenuto una regola quasi opprimente nei conservatori». Mi conforto notando che poco alla volta sta scomparendo. E infatti, come ho detto sopra, il Novecento può vantare anche compositori straordinari che hanno innovato senza scontrarsi con i valori del passato e che entreranno nella storia al pari di Bach, Mozart, Beethoven, Brahms e Mahler.