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19 Gen 2022

I gradi di separazione tra eruzioni vulcaniche e arti

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La recente, potente eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Haʻapai, nel mezzo dell’Oceano Pacifico meridionale, offre l’occasione per ricordare la storica e celebre eruzione del vulcano Tambora, in una delle isole dell’arcipelago indonesiano, avvenuta tra il 5 e il 15 aprile del 1815.

 

L’eruzione più potente dell’era moderna

La storia è nota ma vale la pena ripercorrerla al volo d’uccello. Il Tambora iniziò – o forse meglio: ricominciò – la sua fase eruttiva già a partire dal 1812 e un paio d’anni dopo, nel dicembre 1814, la nave da crociera Ternate vide, nonostante la grande distanza lungo la quale procedeva la sua rotta, immense colonne di fumo levarsi dal vulcano, il cui diametro era così elevato da far credere agli osservatori di trovarsi di fronte a un vulcano gigante. All’inizio di aprile del 1815 ebbe inizio la fase parossistica, con l’esplosione violentissima che sparò letteralmente polveri, ceneri, flussi piroclastici composti da materiale magmatico e gas ad alte temperature, fino agli strati superiori dell’atmosfera (stratosfera, fino ad altezze superiori a 40 km dal suolo). L’eruzione, in questa sua fase, durò 10 giorni, ma le esplosioni terminarono il 15 luglio, mentre emissioni di vapore e nubi di cenere vennero osservate fino al 23 agosto. Fiamme e forti scosse di assestamento, invece, furono testimoniate fino all’agosto del 1819, quattro anni dopo l’evento principale.
Si trattò insomma dell’evento vulcanico più potente dell’era moderna – anche l’eruzione del Krakatoa, sempre in Indonesia, del 1883 fu di minore entità a detta dei vulcanologi – ed ebbe conseguenze immediate anche sulla meteorologia dell’anno successivo, noto alle cronache come “l’anno senza estate” o “anno della povertà”. Le gravi anomalie al clima estivo del 1816 infatti vennero imputate all’eruzione del Tambora che, oltre a buttare in atmosfera il magma che aveva nel sottosuolo, perse… se stesso, ovvero il cono vulcanico, la montagna vera e proprio di cui era costituito, per un’altezza che oscilla tra i 1300 e i 2000 metri sul livello del mare. Le conseguenze furono disastrose ed ebbero ripercussioni in tutto il mondo: le temperature medie globali decrebbero di valori stimati tra 0,4 e 0,7 °C (alcuni ipotizzano variazioni che vanno da 1 a 2,5 °C), innescando fenomeni di carestie per assenza di raccolti e migrazioni forzate di popolazioni (interi villaggi del Galles) che di colpo di trovarono senza cibo – migranti metereologici, antesignani dei moderni migranti climatici.

 

Come l’eruzione del Tambora influenzò la società

La “neve a luglio” del 1816 ebbe ripercussioni anche nell’arte e nell’inventiva. Pare infatti sia da imputare a questo periodo lo sviluppo della “draisina”, antesignana della moderna bicicletta, che prende il nome dal suo inventore, il barone tedesco Karl Drais. La mancanza di foraggio per i cavalli spinse quest’ultimo a cercare un modo alternativo di spostarsi, indipendente dalla trazione animale. Questo impulso portò prima al velocipede, poi alla moderna bicicletta e successivamente, per discendenza diretta con l’avvento dei motori a combustione interna, alla motocicletta.
Non solo: il meteo – non possiamo parlare di clima, che è una variazione più duratura nel tempo – ispirò celebri tele del già celebre vedutista e paesaggista inglese William Turner, suggestionato dagli alti livelli di cenere nell’atmosfera che resero spettacolari i tramonti di quell’anno.

 

 

La nascita di Frankenstein

E ancora – forse l’episodio più noto – la nascita, in quell’estate del 1816, di una delle più celebri narrazioni della modernità: Frankenstein o il moderno Prometeo, romanzo gotico, horror, proto-fantascientifico di Mary Shelley, paradigma di molte letture e riscritture che hanno (avuto) come oggetto la tensione tutta umana verso la conoscenza, ma anche la sua hybris, la “tracotanza” che gli umani mostrano talvolta, quasi sempre puntualmente castigata dalle forze superiori e insondabili della natura.
Certo: non possiamo dire che le ingenti nevicate dell’estate del 1816 costituissero la causa principale della nascita del romanzo, ma senz’altro furono uno degli ingredienti che ne furono alla base: tra gli altri la conoscenza che Mary Shelley aveva del dibattito, seguito con interesse, insieme scientifico e filosofico, legato agli esperimenti sulla “forza vitale dell’elettricità” di Giovanni Aldini, nipote di Luigi Galvani. Sono gli anni della “risuscitazione elettrica”: nei teatri europei spettacoli molto popolari mettono in scena cadaveri mossi dagli impulsi elettrici di una pila voltaica. Insieme alla segregazione del 1816, sarà questo uno degli ingredienti alla base del Frankenstein – composto all’età di 19 anni – a cui se ne uniscono altri, legati alle vicende personali della scrittrice, la cui giovinezza fu segnata da gravi lutti (la madre morì pochi giorni dopo averla partorita, così come accadde alla sua prima figlia, avuta dalla relazione col poeta Percy Shelley).
Non a tutti accade, ma chi scrive è stato costretto, in almeno un paio di occasioni, a trascorrere lunghi periodi di segregazione. In particolare: uno, molti anni fa a seguito di una lunga convalescenza nei primi mesi del 2008, mentre il secondo, in tempi recenti, che è stato quello condiviso da tutti, con la forzata segregazione casalinga a causa della pandemia. Entrambe le occasioni sono state per me fonte di lavoro alacre perché le condizioni al contorno, l’assenza pressoché totale di stimoli esterni, mi hanno permesso di immergermi completamente in ciò che stavo facendo.

 

Altre connessioni tra scienza e arte: Genova e la musica

Mary Shelley si innamorò delle alture che sovrastano Genova – ciò che adesso è il quartiere Albaro – nel 1822, incaricata dal poeta Lord Byron di trovare una residenza per un soggiorno tra le storiche ville di cui la città era impreziosita (Genova era nota all’epoca per i cosiddetti “Palazzi dei Rolli”, dimore seicentesche eredità dei Doria). Mary e Percy, nel frattempo divenuto suo marito, decidono di fare infatti un viaggio in Italia lungo gli itinerari del Grand Tour e di passare dalla Liguria. Lungo il soggiorno approdano a San Terenzo, un villaggio di pescatori vicino a Lerici, nelle Cinque Terre, non lontano dal golfo di La Spezia, dove Percy Shelley troverà la morte, travolto da una tempesta in mare all’età di 29 anni. Mary, sconvolta dalla prematura morte dell’uomo che aveva amato e voluto contro le volontà del padre e le convenzioni sociali (Percy Shelley era sposato in precedenti nozze e sposerà Mary solo quando rimarrà vedovo), torna a Genova e lì si fermerà per un interno anno, proprio in una delle splendide residenze di Albaro, villa Negrotto. Non lontano risiede l’amico Lord Byron, impegnato della stesura del Don Juan. Genova diviene così – insieme a molte altre città italiane – testimone di quella fortunata e prolifica stagione culturale della prima metà del XIX secolo.

 

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Ma la connessione con il territorio è ancora altra e non si ferma a questo episodio, anzi: il capoluogo ligure può vantare figure autoctone di assoluto rilievo. A meno di 8 km (nel quartiere Prè) proprio in quegli anni è attivo e noto infatti uno dei massimi violinisti della storia della musica, figlio illustrissimo della città: Niccolò Paganini. Dotato dell’orecchio assoluto e di una sensibilità straordinaria, gli fu primo severo tutore il padre e successivamente Giacomo Costa, maestro di Cappella della cattedrale di Genova. Sorvoliamo sulla pur notevole e interessantissima biografia del dissoluto Paganini, che seppe unire i suoi eccessi con una sua immagine pubblica anticonvenzionale: il già pallido incarnato, la magrezza cronica, il vestirsi quasi sempre di nero e la capigliatura lasciata lunga, unita alla maestria assoluta con uno degli strumenti più difficili da suonare, contribuirono a creare prima e ad alimentare poi il mito del celebre “patto col diavolo”, secondo il quale, semplicemente, si diceva che il violinista avesse stipulato un patto luciferino per poter suonare in quel modo. In generale il violino stesso era considerato lo strumento del diavolo (nonostante fosse stato suonato anche da preti come Antonio Vivaldi, il prete rosso) e nota era l’esecuzione che Paganini riusciva a realizzare del difficile brano dal titolo Il trillo del diavolo, composto da Giuseppe Tartini. Più probabilmente e prosaicamente la spiegazione della maestria di Paganini non sta in nessun patto, vero o presunto, col demonio, ma in una spiegazione scientifica capace di spiegare la perizia con la quale Paganini riusciva nelle mirabolanti esecuzioni che estasiavano i pubblici di mezza Europa.
Tale spiegazione è legata alla sindrome di Marfan, una patologia autosomica dominante che colpisce il tessuto connettivo portando spesso, come nel caso di Paganini, all’aracnodattilia: dita lunghissime e quindi capaci di movimenti preclusi alla quasi totalità delle persone (a cui, nel caso specifico, si univa un esercizio estenuante, tipico di chi ambisce a suonare strumenti come il violino e, come già accennato, l’orecchio assoluto). Questo spiega anche l’habitus del compositore e violinista genovese: nelle manifestazioni muscolo-scheletriche, la sindrome di Marfan si evidenzia nella statura dei pazienti, solitamente più alti della media dei coetanei, che spesso sviluppano (soprattutto durante l’adolescenza) segni di eccessiva magrezza con arti particolarmente lunghi e sottili rispetto al tronco, aspetto detto “dolicostenomelia”.
Quindi qui, come per l’eruzione del Tambora del 1815, la scienza spiega alcune delle concause di alcuni prodigi letterari e musicali di cui noi posteri possiamo ancora godere.

Luciano Celi
Luciano Celi
Luciano Celi ha conseguito una laurea in Filosofia della Scienza, un master in giornalismo scientifico presso la SISSA di Trieste e un secondo master di I livello in tecnologie internet. Prima di vincere il concorso all'Istituto per i Processi Chimico-Fisici al CNR di Pisa, ha fondato con Daniele Gouthier una piccola casa editrice di divulgazione scientifica. Nel quinquennio 2012-2016 ha coordinato il comitato «Areaperta» (http://www.areaperta.pi.cnr.it), che si occupa delle iniziative di divulgazione scientifica per l'Area della Ricerca di Pisa ed è autore, insieme ad Anna Vaccarelli, della trasmissione radio «Aula 40» (http://radioaula40.cnr.it/). Nel giugno 2019 ha discusso la tesi di dottorato in Ingegneria Energetica.
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