Lo scorso settembre è apparso su YouTube un video a cartoni animati di circa 15 minuti dal titolo “Il nucleare: i dubbi più grossi”, realizzato da Andrea Lorenzon, che in poco tempo ha raccolto oltre un milione di visite e commenti generalmente entusiasti tra il pubblico, composto in maggioranza da giovani e giovanissimi.
Purtroppo, questo video è costellato di errori, imprecisioni, notizie distorte e dati poco attendibili. Di seguito una breve selezione.
All’inizio, in tono volutamente sardonico, si dice che è «molto facile» costruire e capire come funziona una centrale nucleare. In effetti l’industria nucleare non è affatto “molto facile”, anzi è terribilmente difficile. Si tratta di impianti intrinsecamente pericolosi e molto complessi, cosa che aumenta notevolmente tempi e costi di costruzione, tanto che i budget di previsione saltano sempre e le attivazioni operative degli impianti si allungano, anche di decenni. Persino la “semplice” gestione delle centrali non è affatto banale.
L’incidente di Fukushima: si poteva evitare
Parlando di incidenti, il video lascia intendere che il maremoto del 2011 in Giappone fosse imprevedibilmente eccezionale e, quindi, «i danni conseguenti a Fukushima sostanzialmente inevitabili». Non è assolutamente così. Viene infatti omesso il fatto che la prima centrale nucleare costiera raggiunta dal maremoto non fu quella di Fukushima, bensì quella di Okagawa, dove l’impianto, costruito da un’altra azienda, e senza badare a spese, resistette sia al terremoto che allo tsunami, diventando addirittura rifugio per gli sfollati. Il che la dice lunga sui rischi nucleari dovuti a malversazioni dei costruttori e corruttela nei controlli.
Il video prosegue affermando che il nocciolo «non esploderà mai; al massimo si scalda, si dilata e fonde» il che ben si connette con l’altro travisamento: «una centrale non è una bomba e non può esplodere come una bomba». I fatti dimostrano esattamente il contrario: il 10 aprile 2003 nella centrale di Paks, Ungheria, fu scongiurato il pericolo di un’esplosione nucleare grazie a un pronto e non semplice intervento di raffreddamento di 30 barre di combustibile del nucleo del reattore. L’autodistruzione del reattore costituisce il maggiore dei pericoli e può essere innescato, come accadde a Fukushima, anche da eventi di “ordinaria amministrazione” quali, ad esempio, il danneggiamento dell’impianto refrigerante e/o la mancata alimentazione delle pompe. Una centrale nucleare, in caso di incidenti, provoca comunque effetti biologici (ad esempio, sindrome acuta da radiazioni e aumento dell’incidenza del cancro), psicologici e sociali estremamente gravi e duraturi.
Il problema delle scorie nucleari
La frase «ci preoccupiamo di poche scorie stoccate in barili a prova di bomba che in 70 anni di attività di un Paese occupano un solo capannone» è molto fuorviante, perché si limita a considerare l’aspetto quantitativo, senza toccare i risvolti più critici.
Le scorie sono, in realtà, un problema non risolto che lasciamo sulle spalle delle prossime generazioni; come sottolineato in un articolo uscito su Chemical & Engineening News del 5 maggio 2008 «it is at best irresponsible, at worst a crime, to leave the waste to be addressed by generations not yet born» (è irresponsabile, se non criminale, lasciare il problema delle scorie a generazioni che non sono ancora nate).
Inoltre, non viene toccato il problema della dismissione di una centrale nucleare, che di scorie ne lascia tante e di difficilissima gestione; il sito che ha ospitato una centrale porta indelebili i suoi segni: enormi silos, in cui vengono “tombate” le scorie e le parti dell’impianto, che per ragioni di sicurezza non possono essere toccate per tempi lunghissimi e di cui, ancora una volta, si dovranno occupare le future generazioni.
Il caso Ucraina: cosa succede in caso di attacco?
Il video minimizza gli «effetti di un attacco militare», come quelli avvenuti di recente in Ucraina.
Gli impianti nucleari non sono progettati in funzione di un possibile danno derivante da un attacco militare perché, con una visione assolutamente miope, si considera quale unica fonte di pericolo il danneggiamento delle strutture che contengono il reattore. Per provocare un disastro simile a quello di Fukushima sarebbe in effetti sufficiente attaccare il sistema che controlla la temperatura dei reattori.
Nel video si tace sulla «connessione tra usi civili e usi militari»; i due cicli del combustibile e della fissione, invece, funzionano spesso in parallelo, anche negli Stati con regimi autocratici (il caso tipico è quello dell’Iran, con il suo programma militare clandestino svolto in parallelo a quello civile).
Anche in assenza di programmi militari clandestini, la catena del nucleare civile ben si presta ad essere utilizzata per applicazioni militari: questo vale per gli impianti di arricchimento dell’isotopo fissile dell’uranio (U-235), per i reattori di ricerca e commerciali, per gli impianti e la tecnologia di ritrattamento e per i siti provvisori di stoccaggio dei materiali fissili.
Perché il nucleare fa paura?
L’affermazione poi che «Il nucleare fa paura perché ci appare ancora misterioso, per questo ci ricordiamo di quei 2 grossi incidenti successi in 70 anni di attività» è puro negazionismo. In realtà gli incidenti sono stati numerosi e almeno 5 gravi: oltre a Chernobyl (1986) e Fukushima (2011), si devono aggiungere quello all’impianto americano di Three Mile Island (1979) e quelli alle centrali nucleari di Kyshtym (1957) e di Windscale Piles (sempre 1957). Naturalmente degli incidenti nucleari legati ai programmi militari clandestini non si sa nulla.
Quindi, il nucleare “fa paura” non perché sia oggetto opaco e misterioso, come si dice nel video, ma proprio per la consapevolezza dei rischi associati.
Rinnovabili e nucleare
Per giustificare la necessità di installare impianti nucleari, il video attacca pesantemente le rinnovabili. Si afferma, ad esempio, che «Questa filiera, in rapporto all’energia prodotta, genera un inquinamento e un’emissione di CO2 che supera pure quella del nucleare, facendoci poi dipendere da Stati come la Cina»
L’autore sostiene che l’impronta carbonica del nucleare è inferiore rispetto a quella delle rinnovabili; dimentica, però, che la quantità di CO2 emessa dal nucleare deve essere calcolata tenendo conto di tutte le fasi del ciclo di vita degli impianti – dall’estrazione dell’uranio fino alla dismissione delle centrali – senza tralasciare le emissioni legate al trasporto e allo stoccaggio delle scorie radioattive.
Per quel che riguarda la dipendenza dalla Cina, le attuali tecniche consentono di riciclare fino al 88-90% del modulo fotovoltaico, generando circa 17-18 kg di materie prime seconde per ogni pannello e diminuendo così la dipendenza dai Paesi esteri.
Non altrettanto può dirsi del combustibile nucleare, presente in soli cinque Paesi al mondo, tra cui Russia (8% delle riserve mondiali) e Kazakistan (15% delle riserve mondiali).
La denigrazione delle rinnovabili prosegue associando allo sviluppo delle rinnovabili l’incremento del consumo di suolo e richiamando l’avversione delle comunità locali nei confronti di pannelli fotovoltaici e pale eoliche.
Anche in questo caso la smentita viene dai “freddi numeri”. Per raggiungere gli obiettivi del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), rivisti alla luce del Green Deal UE, si prevede che entro il 2030 il fotovoltaico debba fornire almeno 100 TWh di energia elettrica, 4 volte in più rispetto al 2020. Ipotizzando che questa energia venga generata da impianti solari a terra, si occuperebbe un’area di poco superiore ai 1000 km2, grosso modo pari alla superficie della provincia di Pistoia, e corrispondente a circa il 5% del suolo consumato in Italia, contro una quota del 40% e del 30% ricoperta, rispettivamente, da strade ed edifici.
Esistono tuttavia diverse alternative per ridurre ulteriormente il consumo di suolo: ad esempio, ristrutturando gli impianti esistenti con moduli più efficienti, integrando il fotovoltaico negli edifici o installando il fotovoltaico su bacini idrici e lungo autostrade e ferrovie.
Anche la questione della discontinuità delle forniture di energia rinnovabile è risolvibile senza dover ricorrere a nuove centrali nucleari grazie ai sistemi di stoccaggio elettrico e termico sempre migliori disponibili sul mercato.
Con una buona pianificazione, il concreto coinvolgimento dei territori, un’informazione preventiva, tempestiva e trasparente, il rispetto delle norme che regolano i permessi, l’integrazione dei progetti con il tessuto economico-sociale locale vengono meno anche le obiezioni delle amministrazioni e delle comunità locali, come dimostrano le esperienze degli altri paesi europei.
Di contro, sappiamo per certo che in Italia il culmine dell’opposizione pubblica a piani energetici è stato raggiunto in occasione dei due referendum del 1987 e del 2011. Nel 1987 votò il 65,1% degli aventi diritto e la grande maggioranza si espresse contro l’opzione nucleare. Nel 2011 i votanti furono il 54,79% degli aventi diritto, e il 94,5% si espresse di nuovo contro il nucleare.
I nostri giovani dovrebbero guardare responsabilmente al loro futuro affidandosi non a un divertente cartone animato, ma ai dati scientifici; l’indicazione è chiara: in tutto il mondo le rinnovabili sono in crescita esponenziale, mentre il nucleare è sostanzialmente residuale o in fase calante.