di Daniele Ramazzotti e Alex Graudenzi
Quando un individuo è contagiato dal virus SARS-CoV-2, viene infettato da un elevato numero di particelle virali che possono presentare piccole differenze nella sequenza genomica.
Tali differenze nella sequenza sono le cosiddette varianti, le quali si generano per diversi motivi, fra cui errori di replicazione e complessi meccanismi di interazione fra il virus e il proprio ospite. In sintesi, le varianti si originano all’interno di un individuo infetto, per poi trasmettersi durante i contagi.
Come si studiano le varianti?
Identificare quali varianti siano presenti in un individuo è possibile grazie a esperimenti di sequenziamento di campioni virali, ma come fare a predire su larga scala come le varianti si generano e si diffondono?
La risposta in due algoritmi sviluppati da un team frutto delle collaborazione fra IBFM-CNR e Università di Milano-Bicocca e che comprende i ricercatori Daniele Ramazzotti, Fabrizio Angaroni, Davide Maspero e Alex Graudenzi e i professori Rocco Piazza, Carlo Gambacorti-Passerini e Marco Antoniotti.
I due approcci di data science, pubblicati rispettivamente sulle riviste Patterns e iScience del gruppo Cell Press, consentono di analizzare la mole crescente di dati di sequenziamento di campioni virali resi disponibili dai laboratori sperimentali, proprio per analizzare l’evoluzione del virus e delle sue varianti.
Come si diffonde il virus?
Il primo metodo, chiamato VERSO (Viral Evolution ReconStructiOn) consente di ricostruire i contatti epidemiologici fra persone, dal momento che si può supporre che, se due individui presentano le stesse varianti, essi possano essere vicini nella catena del contagio. Questo permette di ricostruire i cosiddetti modelli filogenomici, che restituiscono una mappa geotemporale della diffusione del virus. Si tratta di un aspetto importante, per esempio l’identificazione tempestiva di focolai o dei super-diffusori, nell’ambito del tema contact tracing.
Tramite VERSO è inoltre possibile intercettare varianti potenzialmente pericolose, prima che si diffondano nella popolazione. Se per esempio una determinata variante è osservata in pazienti che non possono avere avuto contatti fra loro, magari perché distanti geograficamente, allora essa potrebbe potenzialmente essere utile al virus, per replicarsi più velocemente o per diventare più resistente nella battaglia con il proprio ospite. Questo è il caso delle varianti più famose, quella inglese, quella brasiliana e quella sudafricana.
Come si generano le varianti?
Il secondo studio, pubblicato su iScience, mira invece a quantificare i meccanismi responsabili della generazione delle varianti. Tecniche già applicate nello studio del cancro si sono rivelate efficaci per identificare differenti “firme mutazionali” in diversi gruppi di pazienti. Lo studio ha permesso di ipotizzare come alcuni enzimi umani (APOBEC e ADAR), già noti per agire come una prima difesa contro le infezioni di questo tipo, possano essere responsabili per la generazione delle tipologie diverse di varianti del virus SARS-CoV-2.
Inoltre, l’analisi ha mostrato come la presenza di tali processi mutazionali appaia estremamente eterogenea nei pazienti, suggerendo la possibilità che essi possano essere correlati ai distinti decorsi della malattia.