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29 Ago 2023

Trafficanti di natura: il commercio illegale di piante e animali

Andrea Pelfini

Andrea Pelfini
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È l’amore, o piuttosto qualcosa che si spaccia per esso, uno tra i maggiori pericoli per il falco pecchiaiolo, stupendo rapace diurno migratore che fa la spola tra l’Africa subequatoriale e l’Europa, dove nidifica.

Durante il suo viaggio verso il nostro continente, numerosi esemplari transitano in prossimità dello stretto di Messina, insieme a una moltitudine di altri uccelli migratori che compiono lo stesso viaggio. È lì che quel viaggio si interrompe, abbattuti dai fucili di qualche innamorato.

 

L’adorno, promessa d’amore e morte

Resiste in alcune zone del Sud Italia, infatti, una tradizione vecchia di secoli secondo cui “se si spara all’adorno (il nome del falco pecchiaiolo dato dai locali) allora ci si assicurerà la fedeltà dell’amata per tutto l’anno successivo”, scrive il giornalista investigativo ambientale Rudi Bressa nel suo libro Trafficanti di natura, edito da Codice.

Ovviamente, questa antica superstizione locale non basta a spiegare i numeri della mattanza di uccelli che contribuisce a fare dell’area tra Sicilia e Calabria un cosiddetto “black spot”, una zona in cui il bracconaggio è un fenomeno diffuso, preoccupante e difficile da arginare e contrastare.

 

Il mercato internazionale illegale

Accanto alle doppiette si è anche sviluppato un fiorente mercato illegale gestito dalla criminalità organizzata che vede nel rapimento dei pulli – i giovani uccelli ancora non involati – e nella loro rivendita a mercanti internazionali un’enorme fonte di reddito.

Un’aquila di Bonelli, rapace tanto protetto e raro quanto ricercato sul mercato nero, può anche arrivare a valere dai 18 ai 20 000 euro, per un solo esemplare, andando ad alimentare un commercio, soprattutto verso il Medio Oriente e il Golfo Persico, dove la falconeria è molto diffusa e apprezzata.

 

Il pettirosso della “polenta e osei”

La tradizione, questa volta culinaria, è anche il motore dei trafficanti di natura del Nord Italia. Sono infatti i tipici “polenta e osei” o lo “spiedo” a giustificare l’abbattimento, legale o meno, di decine di migliaia di piccoli uccelli, stanziali o migratori, che utilizzano le valli di Lombardia, Veneto e Trentino per accorciare e facilitare il loro viaggio di andata e ritorno dal Nord Europa.

Bressa riporta i dati emersi dall’operazione “Pettirosso”, condotta nelle valli bresciane dai carabinieri forestali e da quelli del raggruppamento CITES, specializzati nella tutela di specie animali e vegetali protette dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione: «139 persone denunciate per reati contro l’avifauna selvatica, un arresto per detenzione di arma clandestina e il sequestro di 3336 uccelli, di cui 884 esemplari vivi e 2452 esemplari morti, tra cui numerose specie non cacciabili e protette, tutti catturati o abbattuti in modo illecito». Il tutto, è bene ribadirlo, per fare la “polenta e osei”.

«L’Italia è un hub, un crocevia per questo tipo di reati e con numeri pazzeschi, siamo i primi a livello europeo per il bracconaggio» dice Rudi Bressa. «Così come per il falco pecchiaiolo – prosegue – anche qui torna il tema della tradizione, in un circolo davvero difficile da interrompere e dove anche la divulgazione e la comunicazione rimangono impotenti, perché hanno poca presa sulle persone più anziane, legate, appunto, alla tradizione».

 

Come risolvere il problema del bracconaggio?

Bisogna iniziare da lontano: «Partire dalle scuole, dai piccoli, educando a un nuovo approccio con il mondo selvatico, per formare un’opinione pubblica che riesca a far sentire il proprio peso». È una strada lunga, ma l’unica percorribile per arginare questo atteggiamento predatorio esercitato su decine di migliaia di esemplari di specie diverse.

Una strada che, però, se intrapresa, qualche risultato lo porta: «Ora, nel mercato siciliano di Ballarò è davvero difficile trovare tutta quella quantità di uccelli selvatici in gabbia che si vedeva solo fino a pochi anni fa, qualcosa è cambiato» dice ancora Bressa, in riferimento, per esempio, ai cardellini, un tempo ricercatissimi e venduti proprio sulle bancarelle di questi mercati.

 

Un business insospettabile: gli snack d’asino

Sono numerose le specie animali vittime di questo commercio. Accanto a specie iconiche e dal forte impatto emotivo come la tigre, vittima di uno spietato mercato a causa delle proprietà terapeutiche – mai dimostrate – di ogni sua parte del corpo secondo la medicina tradizionale cinese, troviamo anche animali che mai crederemmo essere oggetto di un profittevole commercio, come l’asino.

Rudi Bressa ha dedicato proprio all’asino addirittura un capitolo del suo libro: «L’inchiesta sull’asino è nata dalla mia collaborazione con Oxpeckers, un gruppo di giornalisti investigativi ambientali che lavorano soprattutto in Africa, da dove, non a caso, ha inizio il commercio dell’asino».

Da essere un animale fondamentale per l’economia rurale locale, con ogni piccolo contadino che possedeva un asino per trainare i carretti, questo equino è diventato una specie a forte rischio e per quale motivo? Per farne degli snack per il mercato cinese.

Sulle coste africane, quindi, fiutato il business, sono sorti degli enormi mattatoi dedicati esclusivamente, o quasi, al macello di ogni asino capitasse loro a tiro, acquistando anche quelli dei piccoli proprietari.

«Questa storia, insospettabile, mette bene in luce come il mercato delle specie animali e vegetali sia globalizzato, senza frontiere» dice Bressa.

E che questo sia un mercato globalizzato lo dimostrano anche altre due storie, questa volta con protagoniste le piante e, di nuovo, l’Italia.

 

I cactus di Atacama e il teak di Myanmar: illegalità e questioni politiche

Venivano dal Cile, e lì sono tornati, oltre 1000 cactus sequestrati dai carabinieri CITES nel 2021 a un commerciante di Ancona che li deteneva illegalmente, dopo averli eradicati dal deserto di Atacama. Un deserto, quello di Atacama, famoso non solo per le rose che hanno dato il titolo a un celebre libro di Luis Sepúlveda, ma anche per il numero di specie di cactus rari del genere Copiapoa, ambiti dai collezionisti di tutto il mondo.

Il teak, invece, un eccezionale legno usato dall’industria navale di lusso per la sua bellezza e resistenza, è stato oggetto di indagine da parte di Rudi Bressa, il quale ha messo in luce un sistema in cui è difficile seguire a ritroso la provenienza di questo materiale, che spesso si intreccia anche con questioni geopolitiche, in questo caso inerenti il colpo di Stato che in Myanmar ha riportato al potere una giunta militare. Sì, perché il mercato illegale di specie naturali è vasto, variegato e in mano alla criminalità organizzata, tanto da essere il quarto mercato illegale dopo armi, droga ed esseri umani.

 

Il commercio dei rettili

Anche la vendita legale è spesso un problema, ad esempio quella dei rettili nelle fiere europee, in cui lo stesso Bressa ha agito sotto copertura per scrivere i suoi articoli, «parlando di un tema inesplorato e poco conosciuto e di come queste mostre, legali, facessero però da tramite per un traffico illegale di lucertole, serpenti e tartarughe, con animali venduti, ma catturati in natura, una cosa vietata». Tralasciando, inoltre, il successivo discorso sulla fuga o dispersione volontaria di queste specie, una volta cresciute o diventate troppo ingombranti, che possono andare ad alimentare la nutrita colonia di specie alloctone invasive, come il caso della tartaruga Trachemys scripta.

 

Criminalità, sussistenza e conservazione

«Ho voluto raccogliere in questo libro tutte queste storie – racconta ancora Rudi Bressa – perché credo che, nonostante la sua enorme portata, quello del traffico illegale di specie sia un tema ancora poco approfondito dal giornalismo ambientale italiano e che si intreccia in maniera indissolubile con altri crimini perpetuati da gruppi criminali».

Un tema, comunque, complesso, perché collegato non solo alla criminalità organizzata, ma anche alla sussistenza di intere popolazioni: «Sono crimini difficili da combattere, per la tradizione, la medicina cinese o lo status symbol che questi prodotti rappresentano in alcune culture, ma anche perché spesso la cattura di animali o la raccolta di piante rare rappresenta una delle poche fonti di reddito per popolazioni locali poverissime» conclude.

Ritorna, in queste parole, un’evidenza che chiunque si occupi di conservazione non può più ignorare: per salvare la biodiversità del nostro pianeta è necessario, in parallelo, agire sulla riduzione di povertà e disuguaglianza tra le popolazioni umane. Diversamente, pangolini, squali, cavallucci marini e migliaia di altre specie continueranno ad avere più valore da morti che da vivi, alimentando un commercio barbaro e senza speranza né futuro, tanto per loro, quanto per noi.

 

 

Immagine di copertina: Radovan Václav – Flickr.

Andrea Pelfini
Andrea Pelfini
Ha studiato medicina, scienze politiche e scienze cognitive all’Università del Piemonte Orientale e all’Università degli Studi di Milano. Appassionato di saggistica e divulgazione scientifica, ha frequentato il master in comunicazione della fauna, dell’ambiente e del paesaggio dell’Università Insubria di Varese. Da molti anni alleva api, lavora come redattore di enigmistica, è tra i soci fondatori della società di comunicazione ambientale Ecozoica e racconta storie di natura e scienza sulla pagina Facebook “Storie di natura, scienza e bellezza”.
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